Referendum in Lombardia, la Lega: quorum al 34 per cento

REUTERS


Pubblicato il 20/10/2017
Ultima modifica il 20/10/2017 alle ore 08:16

Il segretario regionale lombardo del Pd, Alessandro Alfieri, se la ride: «I leghisti sono passati via via dal 60 al 40%. Adesso Maroni dice che sarà soddisfatto se andrà a votare almeno il 34%. L’asticella scende sempre di più. Ma la verità è che un’affluenza sotto il 50 sarebbe un vero flop». In effetti, il vero dato politico atteso dal referendum lombardo-veneto sull’autonomia di domenica è quello dell’affluenza. Che vinca il sì, è scontato. Per nulla, quanti andranno a votare. Le regole sono diverse: in Veneto il voto per essere valido ha bisogno del quorum, metà più uno degli aventi diritto; in Lombardia il quorum non c’è.  

 

Però Roberto Maroni, mercoledì, non ha dato i numeri a caso. In casa leghista gli ultimi sondaggi danno i votanti in Lombardia fra il 41 e il 44%. Dunque Maroni ha prudentemente giocato al ribasso, indicando quel 34% che fu l’affluenza raccolta dal referendum sulla riforma costituzionale del 2001. Così, qualsiasi risultato superiore permetterebbe di cantare vittoria. Gianni Fava, assessore all’Agricoltura, sfidante sfortunato di Matteo Salvini all’ultimo congresso e coordinatore della campagna referendaria, è stato chiarissimo: «Un buon risultato sarebbe replicare l’affluenza del secondo turno delle scorse amministrative, intorno al 44%». Appunto.  

 

Ma non è poco, per un voto strombazzato come epocale? Gianluca Pini, altro esponente della minoranza leghista (ma deputato di Ravenna, quindi fuori dalla mischia), risponde di no: «Se ha fatto il 42 il referendum in Catalogna, che aveva per soggetto addirittura l’indipendenza, credo che arrivare intorno al 40 in Lombardia sarebbe ragionevole». In Veneto i leghisti sono più ottimisti, anche se un loro autorevolissimo esponente resta sul vago: «I sondaggi danno l’affluenza fra il 50 e il 60. Il quorum ci sarà. Che il Veneto andasse meglio della Lombardia era scontato».  

 

I leghisti ragionano anche dell’impatto del voto sul partito. E qui c’è un doppio paradosso. Da un alto, il referendum l’ha ricompattato, perché la minoranza bossiana ci si è ancora più impegnata che la maggioranza salviniana. Dall’altro, qualche mugugno c’è, ma proprio nell’entourage del segretario. I fautori della svolta «nazionale» fanno presente che sarà difficile andare a cercare voti al Sud dopo aver vinto un referendum che ha lo scopo di lasciare più risorse al Nord. Salvini non si è troppo buttato nella campagna referendaria. È stata una richiesta dei governatori Maroni e Zaia, convinti che il voto non andasse troppo connotato come «leghista». 

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