Aleppo, dove Dio è stato smascherato
La fotografia di Ameer Alhalbi che ha ottenuto il secondo premio nei World Press Photo Awards 2017: uomini con i loro bambini in braccio in una via devastata di Aleppo
Si intitola Succede ad Aleppo ed è pubblicato da Laterza (pp. 131, € 15) il nuovo libro di Domenico Quirico, l’inviato della Stampa che ha raccontato le tragedie dell’Africa e del mondo arabo negli ultimi vent’anni. Ne anticipiamo l’epilogo.
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Agosto 2016: l’ultimo sussulto di Aleppo rivoluzionaria, per un attimo i ribelli spezzano l’assedio governativo ai quartieri orientali, collegano con una offensiva disperata Soukkari con Ramoussa: «È uno degli avvenimenti più importanti della rivoluzione da cinque anni e mezzo», proclama, troppo ottimista, il capo dell’opposizione politica in esilio. Poi leggi i nomi delle brigate che hanno condotto l’offensiva, sono di Fatah al-Sham, islamisti, il nuovo nome con cui al-Qaeda siriana si è mimetizzata per sfuggire ai sospetti occidentali. O di Ahrar al-Sham, brigate salafite pagate e armate dall’Arabia Saudita, il cui scopo è la sharia, il califfato. Diecimila uomini, la cui forza non è tanto nel numero ma nei metodi feroci di combattimento, con le autobombe e i kamikaze che sostituiscono l’artiglieria.
Un mese dopo: con l’aiuto degli aerei e degli specialisti russi e iraniani inizia l’attacco finale di Bashar per riprendersi la «sua» città. Nei quartieri orientali mancano i viveri, le medicine, a dicembre il territorio controllato dai ribelli si riduce a pochi chilometri quadrati che l’artiglieria serchia spietatamente, metro per metro. Il 22 dicembre, in cambio della fine dell’assedio di Foua e Kefraya, due città governative assediate a loro volta dai ribelli, i combattenti lasciano Aleppo con le loro famiglie per raggiungere la zona di Idlib, ancora sotto il controllo degli islamisti.
LA MIA STORIA SIRIANA FINITA
Non sono più tornato ad Aleppo «liberata». Il mio sguardo non vi afferrerebbe più nulla. Città stregata, inaridita. Vi è passato un raggio della morte che ha risparmiato solo le pietre. La mia storia siriana è finita con lei, con la sua epopea.
Non è una scelta politica, è una vicenda personale. Mai più vi conoscerò l’intensità e il calore delle avventure che hanno segnato questa fase della mia vita. Dopo Aleppo non ho più paura di niente. La paura semplicemente non mi interessa più.
Com’è oggi Aleppo, dopo la conclusione della battaglia? È una città come tante altre città siriane, ma non come le altre. Rassegnata, gli spari sono un rumore lontano; ora si combatte a Idlib e nei villaggi dei dintorni. La si crederebbe pietrificata nel proprio oblio. Cerca di dimenticare il suo passato, ma ne subisce l’implacabile influenza. Condannata a vivere fuori dal tempo della Storia nuova, non respira che nella memoria di coloro che vi sono morti o l’hanno lasciata.
Questa città che è stata mia, intimamente, da un anno almeno non lo è più. La sua riconquista non mi appartiene perché non me l’hanno lasciata vivere. Eppure ne avevo, in fondo, il diritto. L’ho letta, la pagina finale, nel racconto di altri e mi è parsa mediocre cronaca: quando meritava comunque l’epopea. Nessuno con il mestiere può inventarsi o fingere la commozione. Per fortuna. La condanna alla mediocrità è quello che ci salva. Forse mento, è soltanto invidia perché non mi hanno più chiesto di andare.
Secondo quanto mi racconta chi ci vive, che è l’unico testimone attendibile, non è cambiata. Quasi per nulla. Ha ritrovato le sue rovine basse, grigie. Paiono già vecchie di cento anni. I suoi pochi quartieri a ovest rimasti quasi intatti. Il mormorio soffocato dei piccoli mercati. Il risuonare dei passi sui selciato. Perfino i rumori del traffico. La moschea distrutta è sempre lì, sembra attendere qualcuno che non verrà più.
SENZA DESTINO
Aleppo non ha più diritto al suo nome, al suo volto. È una città senza destino. Perché Aleppo è il luogo dove tutto è cominciato, dove il terzo millennio appena nato ha perso subito la sua innocenza e Dio è stato smascherato. In questo 2016 bisogna constatare che la forza bruta, malgrado il progresso e la mondializzazione, malgrado tutti i discorsi sul diritto internazionale e la nuova diplomazia, e i tanti trattati per contenere le guerre, può esercitarsi e prevalere senza ostacolo come ai tempi di Attila e di Hitler.
Tornarci ora, ne sono consapevole, sarebbe stato un altro viaggio senza gioia e senza angoscia. Avrebbe di nuovo diviso la mia vita in un dopo e in un prima. Eppure non lo nego, la città ancora mi affascina, mi attrae. E mi spaventa. Voglio nello stesso tempo e con la stessa intensità toccarla e sfuggirle. In fondo le nuvole delle esplosioni, le urla disperate nella notte, i bambini straziati e condotti al macello potrebbero anche sfumare e potrei ritrovare la città che ho solo letto e mai conosciuto, con la sua cittadella intatta, il suk prezioso e infervorato, i caffè che profumano di legno e di cose buone, gli intellettuali raffinati e gli abitanti gentili... Basta. Non ho più voglia di affrontarli. Anche perché probabilmente questa volta non ci sarebbe più un prima.
LA CERTEZZA DEL MALE
Non so in fondo che cosa mi avrebbe atteso laggiù, la desolazione che ben conoscevo della rovina o la necessaria bestemmia di una città rimessa in piedi in qualche modo. Il modo approssimativo con cui ricostruiscono i poveri. Quello di cui sono certo è che avrei camminato per le strade finalmente senza cecchini bombe e fumo, solo e senza una meta, soprattutto senza incontrare qualcuno da riconoscere, uno sguardo amico. E sarei impazzito di solitudine.
Non si rimuovono le tombe senza pagare un prezzo. Il prezzo è sempre la certezza del Male. Sì, non so se è stata una decisione giusta, non tornare. Quelli che avrebbero potuto consigliarmi a prendere una giusta decisione non li ho più ritrovati. Sono morti. O non sono più ritornati.