Occidente, la sindrome della linea Maginot


Pubblicato il 20/10/2017

La sindrome della linea Maginot. Per anni, l’Occidente, in nome della propria sicurezza, ha continuato a edificare la sua grande muraglia ai confini orientali dell’Europa, temendo un attacco in armi dalla Russia. Nella facile ottica del dopo, abbiamo forse perso tempo. Come nel 1940, anche ai nostri giorni ha prevalso l’effetto sorpresa. La nostra blitzkrieg però è venuta da Sud, con la sfida asimmetrica del terrorismo jihadista e con i flussi di foreign fighters nati e cresciuti nei Paesi europei. E la minaccia russa, a complicare ulteriormente le cose, si è tradotta in forme più subdole e sottili di guerra ibrida, che non conoscono confini e aggirano i muri: con strumenti cibernetici e attività d’influenza online, tesi a condizionare i nostri processi democratici e a tenere sotto tiro i sistemi tecnologici occidentali. 

 

Con altrettanta rapidità e apparente efficacia, Putin continua a muoversi sugli scenari geopolitici, ingaggiando una partita a scacchi con l’Occidente, che sconta la relativa inefficacia delle nostre reazioni all’annessione della Crimea, tiene aperto in Ucraina orientale un conflitto a bassa intensità nel cuore dell’Europa, consolida silenziosamente il proprio ruolo nei Balcani a partire dalla Serbia, coglie con prontezza le esitazioni americane in Siria per diventare determinante per le sorti di quella crisi, tenta di fare altrettanto in Libia nei tempi troppo lunghi dell’Onu in quello scenario. È una tattica brillante e finisce per guadagnare posizioni e influenza, nei confronti di un’Europa in crisi di identità e di un’America confusa. La Russia, insomma, prova a prendersi con i fatti compiuti quello status di grande potenza che Trump, fiaccato proprio dalle accuse di collusione con Mosca, non può più concederle, contrariamente alle speranze russe iniziali. Vuole contare. E ben al di là del suo peso effettivo, economico e anche militare: è un fatto di consenso interno, di ambizione individuale, di retaggio storico. 

 

Chiaro che non è nell’interesse occidentale consentirlo. Non alle condizioni di Putin. È una tattica che rende meno coerente l’azione internazionale contro il terrorismo jihadista, divide le due sponde dell’Atlantico, esaspera la dialettica tra Paesi europei e all’interno di essi, complica lo sforzo di definire un’identità europea più autonoma di difesa. In una parola, rende l’Occidente meno coeso e sicuro. In fondo, l’obiettivo russo di sempre. La nostra contromossa, nella partita di scacchi, è stata finora - e non senza qualche crepa tra di noi - quella di rimanere fermi sui principi, tentando di non interrompere il dialogo dove si può, segnatamente sull’antiterrorismo e selettivamente sui principali scenari di crisi. Di fatto, senza particolare successo: arenati come siamo sulla definizione stessa di terrorismo, di chi è amico e chi nemico; spiazzati nei teatri più critici da una libertà di movimento spregiudicata, sconosciuta alle democrazie occidentali. 

 

E allora? Consolidare l’identità e la compattezza occidentale è indispensabile. In attesa che gli Stati Uniti ritrovino coerenza e efficacia, spetta ai principali Paesi europei fare da collante, impedire che l’Occidente si sgretoli nella contraddizione dei diversi interessi nazionali e di inopportune fughe in avanti. Potrebbe, tuttavia, non bastare. Davanti a un competitor così abile e pronto, è infatti sempre più necessario per noi occidentali - ciascuno per la propria parte, pur con l’obiettivo comune di rendere più forti le nostre istituzioni atlantiche e europee - sapersi assumere responsabilità in proprio, non lasciare spazi vuoti, riappropriarsi della nostra iniziativa in politica estera, superare per necessità la delega permanente agli organismi multilaterali nella quale per tanto tempo abbiamo trovato facile conforto. È un’impostazione che passa sicuramente da un’urgente cambio di mentalità e di prospettiva culturale, ma anche da un lavoro parallelo teso a rafforzare in concreto le capacità strutturali e gli strumenti di difesa dei nostri Paesi. 

 

Incalzati come siamo da Sud e con una messe di problemi irrisolti a Est, mentre la Russia non esita a cavalcare entrambi gli scenari, non possiamo restare inerti. Non si tratta certo di prepararci alla guerra, ma di far poggiare sempre più su capacità accresciute e atteggiamenti più responsabili il nostro dialogo con Mosca. La dialettica tra interlocutori di pari autorevolezza è un linguaggio che i russi tradizionalmente capiscono bene. 

 

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